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Comunicazione di genere – 2a puntata: un po’ di storia e qualche consiglio

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Ecco la seconda puntata della riflessione sulla comunicazione di genere che abbiamo iniziato qui. Oggi ti proponiamo una definizione, qualche cenno storico e alcuni consigli molto pratici rispetto all’uso della lingua italiana. 

Comunicazione di genere definizione

Non siamo di certo noi le prime a parlare di comunicazione di genere. Ne hanno scritto in tante, tra cui Saveria Capecchi, docente universitaria impegnata da anni in questo campo di studi. Prendiamo quindi in prestito alcune delle sue parole, dal libro intitolato proprio La comunicazione di genere, per abbozzare una definizione: “un tipo di comunicazione che promuove una rappresentazione rispettosa delle donne, degli uomini e della comunità LGBT […], cercando di evitare di veicolare e rafforzare gli stereotipi di genere e di adoperarsi a decostruirli, costruendo nuove modalità di rappresentazione di ogni tipo di soggettività” 

La comunicazione di genere è recente? 

E’ di un mese fa la notizia che il vocabolario Treccani ha deciso di inserire le forme femminili di nomi e aggettivi tradizionalmente registrati solo al maschile. Segno che la lingua è viva, si muove, cambia insieme alla società, ed è possibile (dal nostro punto di vista anche necessario) accogliere e rendere visibili questi cambiamenti. Negli ultimi anni (per fortuna!) si sente sempre più spesso parlare di comunicazione inclusiva. Noi preferiamo altre espressioni, ad esempio plurale ci piace molto, ma questo è il tema per un altro post. Verrebbe quindi da pensare che sia una questione affrontata solo di recente. Non è così.

Hai mai sentito nominare Alma Sabatini? Era una linguista femminista. Nel 1984 entrò a far parte della “Commissione per la parità tra uomo e donna della Presidenza del Consiglio dei Ministri” appena istituita. La commissione avviò una corposa ricerca sulla parità tra i sessi (allora si usava questa espressione, oggi di direbbe parità di genere) nella lingua, nei mass media e nelle istituzioni scolastiche.

Questo lavoro portò nel 1986 alla pubblicazione delle Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, con le quali si proponevano indicazioni e suggerimenti per combattere l’androcentrismo della lingua e «dare visibilità linguistica alle donne e pari valore linguistico a termini riferiti alle donne».

Alma Sabatini
Alma Sabatini

Dalle Raccomandazioni alle Linee guida

Le “raccomandazioni” da noi in agenzia sono sempre state una sorta di bignami. Ma Alma Sabatini non è stata l’unica a occuparsene. Già negli anni ‘80 sono stati pubblicati diversi testi di analisi e riflessione su lingua e sessismo. In tempi più recenti la linguista Cecilia Robustelli ha dedicato molto del suo lavoro a questo tema, curando diverse linee guida per l’utilizzo del genere nel linguaggio amministrativo, ad esempio quelle del Comune di Firenze

Scrive Robustelli: «La lingua non solo rispecchia una realtà in movimento, ma può svolgere una funzione ben più importante; quella di rendere più visibile quello stesso movimento e contribuire così ad accelerarlo»

Da dove iniziare quindi per accelerare questo movimento? Il dibattito è aperto, e negli ultimi mesi ha assunto toni molto accesi. Forse avrai sentito parlare dello schwa o letto articoli e petizioni contro il suo utilizzo. Le stesse linguiste femministe hanno posizioni molto diverse, a volte opposte, su questo “esperimento”. La proposta, ricondotta a Vera Gheno, ma in realtà lanciata già nel 2015 da Luca Boschetto sul sito italiano inclusivo, nasce da pratiche di autodeterminazione linguistica di una specifica comunità di parlanti, quella LGBTQIA+.

Senza addentrarci nella complessità di questo dibattito, ti suggeriamo alcune “buone pratiche” per trovare il tuo modo (spesso è solo questione di pratica e consapevolezza) per utilizzare la lingua italiana in modo non discriminante. 

Lingua e genere: qualche consiglio

Il primo consiglio che ci sentiamo di darti è usare la creatività: non esistono formule magiche per rendere l’italiano una lingua neutra. L’idea stessa di neutralità pone parecchi problemi: in una lingua come l’italiano (ma anche il francese, lo spagnolo e molte altre) il neutro non esiste. E soprattutto la neutralità non è certamente quello per cui hanno lottato generazioni di femministe. 

Se il neutro non esiste, sicuramente il maschile non è neutro. Quindi un primo passo è quello di evitare l’utilizzo del termine “uomo” per intendere tutto il genere umano. Ti sembra banale? Eppure espressioni come “I diritti dell’uomo” e “La storia dell’uomo” sono ancora molto usate in tanti tipi di testi, da quelli scolastici a quelli istituzionali e commerciali. Le alternative sono semplici e funzionano benissimo: ad esempio persona, umanità o genere umano: “i diritti umani”, “la storia dell’umanità”.

Stiamo parlando di comunità composte non da soli uomini? Allora insieme ad “uomo” andrebbero evitati termini che nella propria radice contengono un chiaro significato maschile: “la fratellanza fra i popoli”, “la paternità dell’opera”… Nel primo caso possiamo usare la parola “solidarietà”, nel secondo avere l’accortezza di usare “maternità” se si sta parlando di una autrice. O, meglio ancora, visto che non tutte le donne amano la metafora materna, si può trovare una formula diversa. Che ne pensi di “titolarità dell’opera” o “diritto autoriale”?

Alternative ai maschili sovraestesi

Sempre in riferimento ai nomi collettivi, un altro passaggio più semplice di quello che potrebbe apparire è impiegare parole ed espressioni alternative maschili plurali sovraestesi. Ad esempio “cittadinanza” invece di “i cittadini”, “personale docente” invece di “i docenti”. Esistono poi tante parole ambigenere (come quelle che abbiamo visto sopra), con cui basta trovare un modo di evitare l’utilizzo degli articoli: “sei referente del progetto per la tua azienda?” “Sei già cliente della nostra azienda?”.

Lo stesso effetto si può ottenere anche con una serie di espedienti grammaticali e sintattici: i pronomi indefiniti: “chi”, “coloro”, “chiunque”, ad esempio, non contengono marcature di genere (“chi vuole frequentare il corso deve iscriversi entro”), l’uso del verbo al passivo (“l’iscrizione deve essere effettuata entro”), l’impersonale (“si deve effettuare l’iscrizione entro”) o l’utilizzo della seconda persona (“ti/vi chiediamo di effettuare l’iscrizione entro”).

Oscuramento o visibilità?

Tutte queste possibilità fanno parte della strategia di oscuramento. Ma esiste ovviamente anche la strategia opposta, quella della visibilità. La più conosciuta è il raddoppiamento (“Ciao a tutti e a tutte”), che in diversi contesti diventa oggi, per ribellarsi al binarismo imposto dalla lingua, triplicazione (ciao a tutti, a tutte e a tuttə). Oppure moltiplicazione “le donne, gli uomini, le persone trans e non binarie e tutte le altre soggettività”.

Rispetto alla questione dei femminili professionali, come avrai capito il nostro consiglio è chiaro: se stai parlando di una o più donne, non c’è alcun motivo, se non la resistenza ideologica, per non declinare al femminile i mestieri. Dall’operaia alla presidente, dall’assessora alla rettrice. Ricordando che, a parte i termini come professoressa ormai entrati nell’uso, il suffisso -essa nasce come dispregiativo ed è meglio evitarlo. Va bene avvocata (non avvocatessa), poeta (non poetessa). 

E sempre rispetto alle donne, ci sono delle cosine facili facili da evitare: l’articolo prima del cognome, l’utilizzo del “signorina”, il riferimento a “moglie di”, aggiungere “donne” come categoria a parte quando di parla di collettività (“la classe operaia, i disoccupati, le donne”), l’uso infantilizzante del solo nome proprio, il generico “una donna” e l’impiego di formule evidentemente asimmetriche tra uomini e donne (il nome o il soprannome per lei, il cognome per lui). Per non parlare del riferimento a modi di dire e proverbi sessisti (uno per tutti “Mogli e buoi dei paesi tuoi”) o l’uso di stereotipi sulle presunte caratteristiche “naturali” delle donne (spoiler: non esistono). Ipersessista è l’accanimento sull’aspetto fisico e sull’abbigliamento delle donne anche in contesti che nulla hanno a che vedere con la moda, fino al vero e proprio body shaming o victim blaming. Ma questo speriamo davvero che ti sia chiaro.

Parole non binarie

Per quanto riguarda le persone non binarie, come abbiamo visto prima, utilizzare termini non marcati per genere o costruire le frasi in modo da non dover sottostare al binarismo della lingua ti permette di includere tutte le persone, ovunque si collochino nello spettro dell’identità di genere.

Se invece vuoi fare un atto politico esplicito puoi utilizzare segni che scardinano radicalmente sia la grammatica che l’uso sociale della lingua. Lo schwa è quello più conosciuto e che meglio si presta ad avere anche una versione pronunciabile, ma nell’ultimo decennio, soprattutto nei contesti di attivismo o di forte sensibilità alle istanze femministe e LGBTQIA+, si sono sperimentate varie formule per i testi scritti- Quelle che noi abbiamo usato più spesso sono l’asterisco (*) e la @. La -u l’abbiamo vista nascere nei contesti transfemministi, ma a noi non fa impazzire perché ci ricorda il maschile di alcuni dialetti del sud Italia.

In ogni caso, lo ribadiamo, nessuna di queste soluzioni è neutra. Soprattutto ora, con la polarizzazione in corso, è la scelta meno neutra che si possa fare. Al contrario, serve per comunicare un chiaro posizionamento rispetto al dibattito in corso sul linguaggio inclusivo. 

Vuoi una consulenza sulla tua comunicazione di genere? Scrivici, troveremo delle idee insieme.