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Violenza di genere e comunicazione: un focus sugli uomini.

violenza di genere

Non è malato ma figlio sano del patriarcato.

Quante volte hai sentito o intonato questo slogan sulla violenza di genere in una manifestazione femminista per il 25 novembre o l’8 marzo? Noi tantissime. E crediamo che contenga una grande verità sulla violenza maschile contro le donne. Una verità che a furia di urlare slogan, inviare comunicati stampa, fare campagne di comunicazione e azioni di sensibilizzazione, le femministe (quelle dei collettivi, delle associazioni, dei movimenti, dei centri antiviolenza e anche delle istituzioni) sono finalmente riuscite a far passare. Ma è passata fino in fondo?

Quando la violenza è sulle donne ma non si sa chi la compie.

Noi, lo ammettiamo, siamo un po’ fissate con la storia che la comunicazione può fare il suo pezzo per combattere la violenza. Perché, ormai lo sappiamo, la violenza è sociale e culturale, ha radici profonde che vanno indietro di secoli nei più “alti” capitoli della cultura italiana: da Tasso all’opera lirica (ne parlavano nel lontano 2012 Michela Murgia e Loredana Lipperini in un libricino prezioso), dalla mitologia greca all’arte sacra (su questo Chiara Cretella ha fatto un bell’excursus sulla persistenza dell’immaginario iconografico relativo alla violenza di genere attraverso un arco di tempo di molti secoli), arrivando fino ai testi culturali (in senso ampio) e mediatici della contemporaneità (di cui Elisa Giomi e Sveva Magaraggia hanno scritto qui).

Quindi nella comunicazione che succede?

Dicevamo, siamo fissate e infatti riflettiamo su questo da circa 20 anni. Quando abbiamo iniziato, le campagne di comunicazione sulla violenza erano rivolte e rappresentavano solo le donne. E lo facevano pure molto male. Donne tumefatte, martoriate, senza bocca o con la bocca cucita o tappata. Tutte le tecniche possibili e immaginabili per rappresentare i lividi: dal realismo spinto dello shockvertising alla sublimazione in cui il livido è un effetto grafico, magari a forma di cuore.

Insomma, la donna veniva, e a volte purtroppo ancora viene, rappresentata come la quintessenza della vittima: passiva, terrorizzata, indifesa, sola. E pure un po’ colpevole, perché, in fondo, se non lascia e non denuncia, è un po’ anche colpa sua. Questa è la strada percorsa per tanti anni sia dalle istituzioni nazionali italiane che da molte associazioni.
E gli uomini? Assenti, invisibili, non pervenuti. Oppure, e questo davvero è troppo, negli occhi degli uomini che agiscono le violenze veniamo messe noi donne, con immagini in cui lo sguardo è costruito in soggettiva, per farci vedere la violenza mentre avviene dalla prospettiva di chi la sta agendo.

Parlare agli uomini di violenza.

Ma quand’è che in Italia si inizia a tirare in ballo gli uomini nel raccontare e rappresentare la violenza di genere? Tanto per cambiare, sono state le femministe e i centri antiviolenza a portare questo salto quantico di prospettiva, insieme alla prima associazione di uomini che nel nostro paese ha avviato una riflessione sulla violenza di genere in relazione alla costruzione sociale della maschilità.

Nel 2006, infatti Artemisia di Firenze, Casa delle donne di Bologna, La Nara di Prato e Maschile Plurale portano in Italia la campagna del Fiocco Bianco. La campagna era nata nel 1991 da una mobilitazione di uomini canadesi dopo la strage di 14 studentesse all’École Polytechnique dell’Università di Montreal, ad opera del venticinquenne Marc Lepine.

Per la prima volta, una campagna di comunicazione che parla di violenza rappresenta soggetti maschili “normali”, da soli o insieme a una donna in un contesto di coppia. Le prime due edizioni della campagna italiana del Fiocco Bianco tentavano di stigmatizzare i comportamenti violenti e collegarli alla maschilità con gli slogan “I veri uomini non picchiano” (un po’ ambigua, perché in realtà sono proprio i “veri uomini” che lo fanno) e “La mia forza è nel rispetto e quando lei dice NO io dico OK”.

La terza edizione della campagna del Fiocco Bianco l’abbiamo realizzata noi nel 2008, eccola qui:


In questa campagna sociale abbiamo voluto giocare proprio sulla “normalità” degli uomini che agiscono violenza e sulla “normalità” che serve per contrastarla. Gli eroi insomma non servono proprio (nei mesi in cui abbiamo ideato la campagna fioccavano articoli su uomini eroici che avevano salvato povere pulzelle indifese da bruti violenti), anzi sono l’altra faccia della violenza (dopo ti spieghiamo perché). Per raccontare tutto questo, e farlo anche in un modo non respingente, addirittura ai limiti dell’ironia, abbiamo scelto l’archetipo pop del supereroe, rovesciandolo.
Ti senti superman perché difendi le donne? Spogliati del vestito da supereroe, e inizia a lavorare sulle azioni e sulle scelte quotidiane, le tue.

Uomini che ci mettono la faccia.

Dal 2006 in poi, lo spostamento di prospettiva nella comunicazione sociale sul tema violenza contro le donne è andato avanti (con fatica eh), e alcune campagne hanno iniziato a rappresentare gli uomini, da soli o in coppia con una donna. Ne è un esempio la famosa campagna “Riconosci la violenza”, ideata nel 2010 da un gruppo di donne impegnate nella politica e nella cultura, adottata e diffusa nel 2013 dal Ministero per le Pari Opportunità per promuovere il numero nazionale antiviolenza 1522. La campagna (che ha molti meriti, ci teniamo a specificarlo) rappresenta gli uomini, ma in realtà non parla a loro. Vengono proposti sette differenti soggetti con immagini di coppie eterosessuali, in cui la figura maschile ha il volto coperto da un cartello nero con la scritta “La violenza ha mille volti. Impara a riconoscerli”.
Peccato però che questi volti non siano visibili! E che a riconoscerli siano chiamate solo le donne e non gli uomini stessi. L’unica soluzione che ci dà la call to action è che le donne lascino e denuncino i partner violenti. Gli uomini possono fare qualcosa? Pare di no, la responsabilità di far cessare la violenza rimane in capo alle donne, e di possibilità di cambiamento per gli uomini non ce n’è neanche l’ombra.

Prese dallo sconforto per questa sorta di tabù nel “guardare in faccia” la violenza, quando nel 2012 abbiamo vinto il bando della Fondazione del Monte per una campagna di comunicazione rivolta agli uomini, siamo partite proprio da qui per l’ideazione della campagna “NoiNo.org Uomini contro la violenza sulle donne”, e abbiamo chiesto agli uomini, noti e sconosciuti, di “metterci la faccia”.


Lo abbiamo chiesto a testimonial famosi in vari ambiti (cinema, televisione, sport) ma anche e soprattutto a uomini comuni, che erano invitati a partecipare attivamente mandando le loro testimonianze. Qual era il presupposto? Mettere gli uomini al centro del processo comunicativo, come destinatari e come soggetti della rappresentazione, protagonisti di una proposta di cambiamento dal basso.

Uomini che parlano ad altri uomini.
Uomini che dicono “Noi No”, il che non significa che la violenza non li riguarda (reazione tipica), ma al contrario che si impegnano in prima persona, attivamente, per contrastarla.
Significa che della violenza sono gli uomini (anche e soprattutto) a doverne parlare e riparlare. A partire dal dire cosa è violenza: certamente la violenza fisica e lo stupro, ma anche una serie di azioni che compongono la base dell’iceberg della violenza, come minacciare, isolare, insultare, mortificare, impaurire. Ossia tutte quelle forme di violenza spesso ancora non riconosciute come tali.

In questa campagna abbiamo scelto appositamente di evitare la colpevolizzazione, ma piuttosto collegare la consapevolezza e l’assunzione di responsabilità alla possibilità di scelta, di cambiamento, di agency. Gli uomini possono fare qualcosa contro la violenza, eccome se possono.

Mostri e Salvatori.

Con la progressiva visibilizzazione degli uomini sul tema della violenza, sono emersi ovviamente anche gli stereotipi più profondi e più diffusi, che rientrano nella dicotomia “mostri e salvatori”. Questi rappresentano infatti i due poli estremi, e speculari, della rappresentazione sbagliata (ed emblematica) degli uomini quando si parla di violenza. Da una parte la rappresentazione degli uomini anormali, che si può incarnare in mostri, maniaci, selvaggi, uomini involuti, animali. Dall’altra la rappresentazione degli uomini buoni, difensori e salvatori delle donne.

Il primo polo ci dice che gli uomini che fanno violenza non sono tutti gli uomini (ma dai?) ma uomini in realtà subumani, diversi, strani. Cosa ci dice questo? Che la violenza è un’eccezione, che la cultura maschile non c’entra niente, che la violenza è fuori di noi, è altro da noi. Esattamente il contrario di quello che come femministe ripetiamo come un mantra, ossia quel “figlio sano del patriarcato” di cui sopra. L’uomo di Neanderthal è solo l’ultimo degli esempi.

E i salvatori? Eccovi un esempio che ci dice tante cose: nel 2014, in occasione del 25 novembre, la squadra della Fiorentina decide di “scendere in campo” contro la violenza, e diffonde la campagna “In difesa ci siamo noi”. I giocatori della squadra difendono le “loro” donne, associate metaforicamente alla porta (davvero?), da una violenza che viene dall’altra parte, dalla squadra avversaria, dal fuoricampo del proprio campo.

Parlare di violenza agli uomini che fanno violenza.

L’ultimo passaggio del nostro viaggio riguarda le campagne nate per comunicare con un target specifico di uomini, quelli che compiono violenza.

Negli ultimi anni si sono infatti moltiplicati i centri rivolti agli uomini che agiscono violenza. Alcuni di questi nascono da un lungo percorso di riflessione all’interno dei centri antiviolenza femministi, e infatti la loro ottica è femminista: la violenza è strutturale, non è una malattia e non si può curare. Però cambiare si può, gli uomini possono farlo, se lo vogliono. E i centri per uomini li sostengono nel percorso di cambiamento.

Comunicativamente è un obiettivo ancora più complesso: riuscire a dialogare con questi uomini che normalmente vengono appunto mostrificati, permettere loro di riconoscersi e di accogliere l’invito a chiedere aiuto per cambiare.

Un esempio è il Centro Senza Violenza di Bologna, per cui abbiamo realizzato l’anno scorso la campagna “Stai usando violenza? C’è sempre un altro modo”.

Violenza di genere

La campagna rappresenta l’immagine di un uomo che si guarda allo specchio, quindi metaforicamente riflette su di sé, indaga le sue emozioni, guarda la sua storia (e in questa storia c’è anche la relazione con la donna, che compare infatti nell’immagine riflessa). Le headline, in tre diverse versioni, riprendono alcuni degli stati d’animo che possono rappresentare le leve motivazionali al cambiamento, nominando chiaramente la violenza nelle sue diverse forme e focalizzandola come azioni, comportamenti, emozioni provocate.

Buone pratiche per parlare di e con gli uomini quando si parla di violenza.

E quindi? Quali possono essere degli spunti positivi per fare una buona comunicazione sulla violenza di genere rivolta agli uomini?

Ti diciamo quelli che abbiamo trovato noi:

  • fare campagne multisoggetto, innanzitutto, aiuta ad allargare la rappresentazione, includendo uomini diversi per età e contesto;
  • evitare di usare strategie che stigmatizzano gli uomini è il presupposto perché gli uomini si rendano disponibili anche solo ad approcciarsi al messaggio;
  • nominare la violenza, sempre e inequivocabilmente, e scorporarla in azioni concrete, in modo da favorirne il riconoscimento. Non fissarla come un destino (dire “uomini violenti” non lascia scampo) ma presentarla come una scelta (“uomini che agiscono violenza”);
  • proporre sempre la possibilità del cambiamento.

Se vuoi vedere altre campagne di genere che abbiamo realizzato, clicca qui.

E tu lavori per un ente o un’associazione che tratta questi temi? Facci sapere la tua esperienza, potremmo pensare insieme una campagna o un percorso di formazione!

Vuoi una consulenza sulla tua comunicazione di genere? Scrivici, troveremo delle idee insieme.