Oltre le parole: le immagini
Ti abbiamo parlato di come usare la lingua in un’ottica di genere qui e qui, ma la comunicazione di genere ovviamente non è fatta di sole parole. Anche le immagini (che siano simboli, illustrazioni, foto o video) hanno un ruolo fondamentale nella produzione di senso.
Una sola immagine può dare una gran quantità di informazioni che, per essere trasmesse verbalmente, richiederebbero molte parole.
In secondo luogo non c’è una formazione di base sulla decodifica delle immagini. A scuola raramente si educa alla lettura dei diversi livelli di comunicazione di un’immagine. In una fotografia, ad esempio, non c’è solo il contenuto che comunica qualcosa, ma anche la prospettiva, le proporzioni, la luce, i colori.
C’è infine da considerare il meccanismo di riproduzione degli stereotipi che riguarda in particolar modo le immagini. Per capirlo basta fare una ricerca su Google immagini e verificare quante immagini stereotipate, le une simili alle altre, esistono su ogni possibile parola chiave.
Cosa significa immagine stereotipata?
L’espressione fa riferimento a immagini che rappresentano alcune tipologie di persone sempre con le stesse caratteristiche o negli stessi ruoli e situazioni. Ispirandoci al significato etimologico del termine, che nasce nell’ambito tipografico per descrivere la creazione di una matrice, potremmo dire che sono immagini “fatte con lo stampino”. Gli stereotipi semplificano e generalizzano, facendo in modo che opinioni sociali parziali, errate e intrise di pregiudizi su determinati gruppi sociali o su specifici fenomeni, si riproducano sempre uguali nel tempo. Questo determina un effetto a catena sulle aspettative e sui comportamenti collettivi, ostacolando gravemente le possibilità di cambiamento culturale e sociale.
Quanti tipi di stereotipie ci sono? Così tante da rendere impossibile fare un elenco esaustivo. Le bambine, le ragazze e le donne, ad esempio, ancora oggi sono rappresentate in modi stereotipati nelle pubblicità e nei mezzi di comunicazione, spesso seguendo i due grandi filoni dell’oggettificazione sessuale e del ruolo di cura. Se apriamo la categoria donne e vediamo cosa c’è dentro troveremo un numero impressionante di stereotipi, in cui il genere lavora in modo strettamente interconnesso ad altri aspetti. Ci sono ad esempio stereotipi specifici sulle donne nere, su quelle grasse, su quelle disabili e così via.
Lo stereotipo della vittima
Nelle campagne sociali sulla violenza maschile contro le donne è predominante lo stereotipo visivo della vittima.
Guarda ad esempio questa immagine. Non ti dà la sensazione di averla già vista? La comunicazione sul tema della violenza sulle donne è piena di scatti simili.

Che cosa vedi in questa foto? E che cosa invece non ci vedi? Che emozioni ti suscita?
Ti diamo qualche spunto.
Il soggetto ritratto è una donna bianca, giovane e magra. Sebbene rispetto alla violenza sulle donne i dati indichino chiaramente che chi la subisce appartiene a tutte le fasce d’età, la maggior parte delle immagini sul tema rappresentano donne giovani e con un aspetto fisico ritenuto convenzionalmente attraente. Inoltre raramente troveremo donne nere. Perché? In un’immagine come questa la donna rappresentata non è una donna specifica, ma un simbolo della donna vittima di violenza tout court. E, come ben sai, in un sistema razzista e colorista, è il bianco a rappresentare l’universalità.
La donna è accovacciata, con i capelli che le coprono il volto. Questa è la posizione tipica con cui viene rappresentata la vittima di violenza, che subisce inerme e indifesa. Anche questa informazione è del tutto infondata. Sappiamo benissimo che le donne reagiscono eccome! La violenza aumenta proprio nei casi in cui lasciano il partner, interrompono la relazione, si ribellano alla violenza, denunciano.
La mano indica un gesto di autodifesa, ed è già un notevole passo in avanti rispetto ad altre immagini simili, dove però non esiste neanche un minimo cenno di reazione alla violenza. Quella mano riproduce uno dei simboli più utilizzati in questo genere di campagne.

La donna è sola, ma il gesto della mano ci dà l’informazione che c’è un’altra persona da cui lei si difende. Non si vede, ma noi sappiamo che c’è. Non solo. L’immagine è costruita in modo che siamo noi ad occupare la posizione di questo soggetto fuoricampo. L’uomo che agisce violenza ha i nostri occhi. Questa solitudine di fronte alla violenza, l’essere letteralmente messa al muro della donna rappresentata, ci trasmette un senso di disperazione, di angoscia, di impossibilità di uscire dalla situazione.
La violenza che vediamo, anche se non è esplicitamente rappresentata, è una violenza fisica. Noi vediamo una reazione e il nostro cervello completa l’informazione immaginando l’azione. Questo è un altro enorme e pericoloso stereotipo, che associa la violenza solo all’aggressione fisica e impedisce di riconoscerne tutte le altre forme, come ad esempio quella psicologica o quella economica.
Immagini plurali
Qualche tempo fa abbiamo collaborato con il Coordinamento dei centri antiviolenza dell’Emilia Romagna per realizzare una campagna di comunicazione. Per individuare l’immagine più efficace, le operatrici hanno organizzato dei focus group con donne che avevano fatto un percorso con gli stessi centri antiviolenza. È emerso il bisogno di comunicare in maniera chiara il rispetto della privacy (una delle caratteristiche del lavoro che svolgono le operatrici dei c.a.v.) e quindi la richiesta che i volti fossero non troppo visibili.
Questo è il risultato.
Quali sono le differenze con l’immagine che ti abbiamo mostrato prima?
Beh sono molte in effetti. Ma prima di tutto la ricerca di una rappresentazione non vittimizzante. Non c’è bisogno di immortalare la violenza mentre accade, anche perché appunto non tutti i tipi di violenza sono facilmente rappresentabili in una immagine statica. In questo caso la violenza viene detta attraverso varie parole, che danno un’idea della varietà di comportamenti violenti, ma le donne rappresentate non sono vittimizzate. Si intravedono dei sorrisi, l’effetto dello scatto non è cupo. Inoltre emerge, nella scelta di fotografare diverse donne abbracciate, il senso della relazione tra loro.
La violenza ci riguarda tutte. E insieme ne usciamo.
La rappresentazione degli uomini che agiscono violenza
Cosa cambia se spostiamo l’attenzione su chi agisce la violenza?

In questo caso il simbolo della violenza diventa un pugno maschile. Nella prima immagine è associato al viso minaccioso dell’uomo, sfocato, sullo sfondo. Nella seconda immagine invece sullo sfondo c’è il corpo di una donna, di cui si intuisce solo che ha le mani davanti al viso (scelta come dicevamo sopra ricorrente in un numero impressionante di casi), che è semivestita (altra pratica, quella dell’erotizzazione, spesso utilizzata) e che, ovviamente (sic!), è messa al muro.
Degli stereotipi sugli uomini che agiscono violenza ne abbiamo già parlato ampiamente qui. In queste immagini ne ritroviamo più di uno. Ad esempio la mostrificazione e la fissazione sul voler sintetizzare la violenza in un simbolo semplificatorio che rimanda alle percosse. Molte donne fanno fatica a riconoscere che quello che subiscono è violenza proprio perché pensano che la violenza sia solo il pugno o il calcio. Immagini di questo tipo contribuiscono a riprodurre questa credenza e, invece di sensibilizzare, perpetuano il sistema da cui nasce la violenza.
Quale immagine per gli uomini che agiscono violenza?
Le immagini che ti abbiamo proposto le vogliamo mettere a confronto con questa:

Qui il volto dell’uomo è ben visibile. L’ambiente è luminoso, nessun effetto di senso rimanda all’idea di mostro. Con il Centro Senza Violenza, che si rivolge proprio agli uomini che vogliono avviare percorsi per interrompere i loro comportamenti violenti, abbiamo deciso di concentrarci sui concetti della responsabilità e del riconoscimento della violenza. Come? Rappresentando un uomo che si guarda allo specchio, che osserva se stesso e la donna con cui ha, o ha avuto, una relazione.
Un simbolo contro il femminicidio che diventa stereotipo
I simboli, dicevamo. Sul tema della violenza di genere, ce n’è uno che si è diffuso moltissimo, le scarpe rosse dell’artista messicana Elina Chauvet (ne avevamo già parlato nel nostro articolo per lo scorso 8 marzo).

È un’immagine potente, che racconta la diversità delle donne che subiscono violenza e che protestano contro il femminicidio. Queste scarpe sono potenti perché sono tante, eterogenee, una accanto all’altra. Ci sono décolleté col tacco e sneakers, ballerine e sandali, stivali e mocassini. E sono usate, portano la forma dei piedi che le hanno indossate.
Trasformarla in un oggetto stereotipato che dovrebbe rappresentare la presunta femminilità in un modello unico travisa completamente il senso di questa installazione e rende il simbolo uno stereotipo.
